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Che tu sia capitato qui per caso o su invito, sono lieta di poterti accogliere!

Questo è un blog nato per contenere esercizi di scrittura. Una specie di agenda di lavoro o, meglio, un archivio pubblico.
Quello di cui ho bisogno è un luogo dove archiviare storie e racconti che mi permetta di non accantonare, di non sfuggire a quello che la mia mente crea oggi, per quanto queste idee possano sembrarmi sciocche e scontate.
Un luogo in cui ritrovare e analizzare con occhio critico quello che ho scritto e scriverò nel corso del tempo, un luogo in cui esercitarmi con regolarità senza accampare scuse.
Ma, soprattutto, è uno spazio che spero mi costringa ad abituarmi a non rinchiudere in un cassetto quello che creo, che mi faccia confrontare con altri sul mio lavoro, perché una storia non esiste mai completamente senza qualcuno che la legga.

Non sempre posterò racconti completi, anche se vorrei che fossero la base di questo blog. La mia intenzione è anche solo quella di inserire progetti in fase di studio, lavorazioni incompiute, idee sulle quali mi piacerebbe basare storie future, analisi di lavori passati.

Tutto questo per cercare di migliorare la mia scrittura e me stessa.

venerdì 27 gennaio 2017

Giorno della Memoria



Oggi è una data particolare.
Tutta una serie di esperienze mi hanno fatto imparare a rispettare e ricordare questo giorno, per cui ho deciso di condividere un lavoro fatto per il corso di scrittura. È qualcosa di piccolo, di insignificante, ma è stata fatto con il cuore e con la mente rivolta a tutte le mie esperienze sull'argomento.
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Febbraio 1946, Milano
Buongiorno, Madre,
oggi è il 426° giorno dall’arrivo dell’Armata Rossa ad Auschwitz. 426 giorni da quando sono stato prelevato di peso dal giaciglio improvvisato su cui mi stavo lasciando morire e portato al campo centrale per ricevere le prime cure. Non so come sia sopravvissuto e, ogni giorno, mi chiedo perché proprio io sono ancora qui a camminare su questa terra e a redigere una lettera che probabilmente non Vi arriverà mai. Non so neanche io perché ho deciso di prendere carta e penna per cercare di contattarVi, ora mi pare una cosa così stupida. Con ogni probabilità scrivere nero su bianco queste parole serve più a me, per mettere ordine ai miei pensieri, che a Voi.
Sono passati quasi due anni dall’ultima volta che Vi ho vista sparire in quella lunga fila di volti senza nome e sottane nere. La mia mente non ha la forza di sperare di ritrovarVi viva. Ciò nonostante, il mio cuore non può non aggrapparsi al desiderio che per Voi le cose siano state più semplici, più rapide.

Questa mattina sono tornato qui, davanti a quella che è stata la nostra casa prima della deportazione, prima della paura, della fame, del dolore. C’è ancora la macchia di vernice scrostata sotto il balconcino della camera di Agnese, la sottile crepa sulla destra dei gradini che conducono alla porta principale, il nido di rondine vuoto sotto l’angolo destro del tetto e quella imposta sgangherata che avrei dovuto verniciare. L’unica cosa che sembra fuori posto sono i vetri delle finestre del piano terra, quasi tutti distrutti. Mi riempiono il petto di uno strano senso di inquietudine, come la porta ancora sprangata.
Mio malgrado, queste mura così desiderate durante la prigionia, non riescono a darmi la serenità che sto così disperatamente cercando da quando l’incubo è finito. Il mio cuore è solo pieno di tristezza e la mente non riesce a tenere a bada i ricordi che vorrei estirpare.
Mio dio, madre, come hanno potuto degli uomini fare questo ad altri uomini? Come sono riusciti a guardare negli occhi un loro simile ed arrivare a distruggerlo a un livello tanto profondo da non fargli riconoscere il proprio viso quando si guarda in uno specchio?
Nonostante sia passato più di un anno, ci sono giorni in cui torno a sentirmi meno degno di camminare su questo mondo del lombrico che fa capolino dal terreno bagnato. È qualcosa che ti entra nelle ossa, si pianta nel cervello e mette radici troppo vigorose da riuscire ad sradicare completamente.
Forse, però, è questo il segreto. Se togli ad un essere umano tutto ciò che lo rende tale, cosa diventa se non un oggetto? Forse rendere un uomo niente più che un numero e un sacco di pelle vuoto ha reso questa pazzia più semplice.
Sì madre, so cosa Volete dirmi. Riesco quasi ad immaginare il Vostro viso che si fa serio, le labbra che si stirano in una linea sottile e le sopracciglia nere che si inarcano creando quella fossetta sulla fronte che conosco fin troppo bene. Quello sguardo di rimprovero che riesco a riportare alla memoria senza il minimo sforzo e che vorrei poter rivedere. È per quella minuscola sulla parola dio che manca tanto di rispetto al nostro credo. Però ditemi, madre, come può esistere un dio e permettere le atrocità che abbiamo vissuto? Come può un dio buono e giusto, onnipresente e onnipotente rimanere impassibile davanti a tutto questo dolore immotivato e a questa morte inutile, se per lui la vita è sacra?
Per una volta cuore e mente sono d’accordo, madre, e non riescono a trovare una risposta, come a molte altre domande che continuano a disturbare le mie notti.
In questo lungo periodo di viaggio, ho cercato di comprendere come le idee di un singolo uomo possano provocare tutto questo disastro, come alcuni esponenti di un popolo possano odiare così tanto chi nemmeno conoscono. Forse odiare non è la parola corretta, però. L’odio implica una qualche sorta di contatto emotivo, un legame. Non ricordo di aver visto la benché minima ombra di emozione in qualcuno dei miei carcerieri se non il disgusto in uno dei soldati di rango più basso. Potrà sembrare un paradosso, ma il disgusto mi ha fatto sentire vivo in più di un’occasione: mi ha dato di nuovo la sensazione di essere reale invece che un fantasma.

Il piccolo pesco che avevamo piantato al centro del campo di grano per il mio capriccio di bambino è ancora qui, forte e rigoglioso, appena un po’ curvo sotto il peso dell’inverno, ma potrebbero essere gli occhi a trarmi in inganno. Il vento soffia da est portando il profumo della legna bruciata nei camini della fattoria vicina, il cielo è bianco come la sciarpa che avevate fatto ad Agnese per il suo quinto compleanno. Potrebbe nevicare questo pomeriggio.
I ricordi e le immagini si susseguono, esplodendo come colpi di fucile in ogni momento in cui la mia mente non è distratta da altre attività. Il desiderio di mettere tutto a tacere è forte.
Ma, ancora più forte è il bisogno di raccontare quello che è successo, troppo assurdo, troppo terribile perché chi non lo ha vissuto riesca anche solo ad immaginarlo. È un’urgenza, un dovere, che non posso più rimandare a lungo. Chi altri potrebbe raccontare a chi è rimasto a casa? È l’obbligo di noi sopravvissuti, lo dobbiamo a chi invece non è riuscito a tornare indietro.
Presto Vi riabbraccerò madre, ma non è ancora arrivato il momento.
Sappiate che Vi amo con tutto il cuore, con quell’amore profondo e viscerale che solo le cose belle riescono a dare.

Sempre Vostro,
Davide

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