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Che tu sia capitato qui per caso o su invito, sono lieta di poterti accogliere!

Questo è un blog nato per contenere esercizi di scrittura. Una specie di agenda di lavoro o, meglio, un archivio pubblico.
Quello di cui ho bisogno è un luogo dove archiviare storie e racconti che mi permetta di non accantonare, di non sfuggire a quello che la mia mente crea oggi, per quanto queste idee possano sembrarmi sciocche e scontate.
Un luogo in cui ritrovare e analizzare con occhio critico quello che ho scritto e scriverò nel corso del tempo, un luogo in cui esercitarmi con regolarità senza accampare scuse.
Ma, soprattutto, è uno spazio che spero mi costringa ad abituarmi a non rinchiudere in un cassetto quello che creo, che mi faccia confrontare con altri sul mio lavoro, perché una storia non esiste mai completamente senza qualcuno che la legga.

Non sempre posterò racconti completi, anche se vorrei che fossero la base di questo blog. La mia intenzione è anche solo quella di inserire progetti in fase di studio, lavorazioni incompiute, idee sulle quali mi piacerebbe basare storie future, analisi di lavori passati.

Tutto questo per cercare di migliorare la mia scrittura e me stessa.

venerdì 30 dicembre 2016

dicembre 30, 2016 - ,, No comments

Kahara dei Neyphilim

Kahara

Quando la trovai, era poco più che uno scheletro.
Riversa a terra in una pozza di fango e sangue, con il corpo freddo, la spalla sinistra dislocata e le ossa delle gambe rotte in più punti. Sembrava solo uno dei tanti cadaveri lasciati a marcire dai Dogh’ur prima della fuga.
Gran parte della pelle del busto era coperta da un reticolo di cicatrici tanto fitte quanto sottili, ben visibili nonostante fosse estremamente pallida. Molte lacerazioni erano ancora aperte e il sangue colava dai genitali e dalla bocca socchiusa. Aveva segni così evidenti di emorragie interne che riuscii a stupirmi, quando mi accorsi del sibilo lieve che le usciva dalle labbra.
Non capii mai cosa mi spinse a chinarmi su di lei per controllare se fosse ancora viva, avevo abbandonato come morti corpi in condizioni migliori.

Sfortunatamente non eravamo una spedizione di soccorso, ma una compagnia di guerrieri scelti con lo scopo di trovare e distruggere quegli scarti mutanti che avevano distrutto tutta la costa orientale di Garuda. Finché la missione non fosse stata portata a termine, non potevamo tornare alla base, nemmeno per salvare la vita dei feriti. Probabilmente nessuno dei nostri superiori aveva immaginato di trovare dei sopravvissuti quando avevano impartito il condizionamento, ad ogni modo, gli ordini che ci erano stati dati erano molto chiari e non esisteva possibilità di scelta.
Adagiai il corpo della bambina su uno dei nostri carri, affidandolo alle cure dell’unico medico. Se fosse stata abbastanza forte forse sarebbe riuscita a resistere fino al nostro ritorno al campo, in caso contrario, non avrebbe avuto da ridire.
Quando riuscimmo a raggiungere il gruppo dei Dogh’ur, lei era ancora viva, anche se le era stato indotto uno stato di coma di terzo livello. Contro ogni logica lasciai due dei miei uomini migliori indietro, affidandogli la sicurezza dei carri e della bambina. Ovviamente avevano l’ordine di fare saltare in aria l’intera carovana nel caso non fossero stati in grado di completare la loro missione o noi la nostra.

La battaglia fu sanguinosa e, nonostante avessimo una potenza di fuoco superiore, molti dei miei uomini morirono. Il numero dei mutanti era tre volte superiore a quello che ci aspettavamo e le loro caratteristiche genetiche così diversificate ci rendevano difficile approntare un piano d’attacco efficace. Ricordo in maniera vaga di aver urlato ordini per più di un’ora, prima che il loro numero ci travolgesse, dividendoci.
Non che fosse importante. Dopotutto, eravamo carne da macello. Se non fossimo riusciti a sopravvivere allo scontro frontale avrebbero semplicemente mandato un’altra unità speciale.

Scaricai l’ultima cartuccia al plasma nel ventre del mutante che mi si era lanciato addosso a fauci spalancate, poi estrassi il coltello.
L’aria intorno a me cominciò a crepitare mentre il Dodicesimo Blocco si apriva autonomamente e mi scagliai contro il mutante successivo, potenziata dai miei poteri.
Cadde a terra con la testa tranciata di netto senza nemmeno accorgersi di cosa lo avesse colpito. Anche i miei sottufficiali avevano finito le munizioni e ora combattevano senza la limitazione del Blocco Superiore, creando molti più danni di quanti potevano farne i fucili al plasma. Abbattei altri otto mutanti, poi mi fermai.
Non c’era più nessuno da uccidere. La missione era stata completata.

Avvertii la sensazione di costrizione esercitata dal Blocco che tornava a chiudersi e rinfoderai il coltello. Poi cominciai la conta dei morti.
Dei duecentotre uomini che erano al mio comando erano rimasti in vita in novantotto. Meno della metà. Se avessi avuto la capacità di provare emozioni sarei stata furiosa per tutte quelle perdite, e non solo con me stessa. Per fortuna, o per sfortuna, i Blocchi che ci venivano imposti non si limitavano solo a contenere i nostri poteri. Un’ulteriore sicurezza per evitare che delle buone macchine da guerra decidessero all’improvviso di rivoltarsi contro i propri padroni.
Dopotutto, noi Neyphilim non siamo umani.

A sentire gli scienziati siamo più simili ai mutanti che alla razza umana, per via delle capacità che siamo in grado di scatenare in momenti di forte emozione. Tuttavia il nostro aspetto fisico è identico a quello di un essere umano se non per un dettaglio: i nostri occhi. Ogni Neyphilim ha gli occhi di una pronunciata sfumatura metallica, con pupille verticali o orizzontali. Non importa che sia tendente all’oro o al bronzo, nessun’altra creatura ha occhi come i nostri. Sono il segno distintivo che ci etichetta come creature inferiori, che gli umani riprogrammano come computer grazie all’imposizione dei Blocchi. Possiamo parlare, muoverci, mangiare, abbiamo persino una certa capacità di pensare, ma non abbiamo libertà decisionale, non ci è concesso provare emozioni. Noi eseguiamo gli ordini, combattiamo e moriamo.

Ordinai ai sopravvissuti di recuperare le armi e le tute. Nessuno di noi aveva niente di valore da riportare indietro, ma i nostri superiori volevano riavere l’equipaggiamento che ci veniva fornito. Quello costava caro.
Mi incamminai verso i carri, notando che uno era stato distrutto, mentre numerosi mutanti giacevano a terra folgorati. Anche uno degli uomini che avevo lasciato di guardia al convoglio era accasciato a terra con il petto sfondato, mentre l’altro era stato ferito abbastanza gravemente da non poter impugnare un’arma, con un polso rotto e il braccio sinistro divelto all’altezza del gomito. Il medico stava già lavorando per contenere la perdita di sangue, se fosse stato abbastanza fortunato avrebbe potuto subire l’intervento di Ricrescita.

Quello che, invece, mi sorprese fu il trovare la bambina cosciente, appoggiata con la schiena alle casse in acciaio delle tute. Nonostante la sua condizione pietosa imbracciava il fucile al plasma, ancora pronto a sparare. Ricambiò il mio sguardo con due grandi occhi stanchi, dall’iride quasi bianca.

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