Welcome

Che tu sia capitato qui per caso o su invito, sono lieta di poterti accogliere!

Questo è un blog nato per contenere esercizi di scrittura. Una specie di agenda di lavoro o, meglio, un archivio pubblico.
Quello di cui ho bisogno è un luogo dove archiviare storie e racconti che mi permetta di non accantonare, di non sfuggire a quello che la mia mente crea oggi, per quanto queste idee possano sembrarmi sciocche e scontate.
Un luogo in cui ritrovare e analizzare con occhio critico quello che ho scritto e scriverò nel corso del tempo, un luogo in cui esercitarmi con regolarità senza accampare scuse.
Ma, soprattutto, è uno spazio che spero mi costringa ad abituarmi a non rinchiudere in un cassetto quello che creo, che mi faccia confrontare con altri sul mio lavoro, perché una storia non esiste mai completamente senza qualcuno che la legga.

Non sempre posterò racconti completi, anche se vorrei che fossero la base di questo blog. La mia intenzione è anche solo quella di inserire progetti in fase di studio, lavorazioni incompiute, idee sulle quali mi piacerebbe basare storie future, analisi di lavori passati.

Tutto questo per cercare di migliorare la mia scrittura e me stessa.

martedì 21 febbraio 2017

Buried


Mi sveglio con la testa dolorante, come se un corpo estraneo pulsasse dalla base della nuca, propagando fitte a tutto il corpo. I miei occhi non sembrano funzionare a dovere, non distinguono nulla intorno a me. Ci vogliono parecchi minuti per rendermi conto che sono completamente circondata dall’oscurità.
Il mio respiro è stranamente pesante, lo sento quasi rimbombare. Avverto l’odore della terra, umido e indefinito.

Quando cerco di mettermi a sedere, il mio viso va a colpire una superficie dura e fredda. Ricado all’indietro portandomi una mano alla fronte. Si è aperto un taglio obliquo dal quale scivolano alcune gocce calde e dense.
In un angolo della mia mente comincia a farsi strada una sensazione di disagio, un grido di allarme che cresce non appena comincio a capire cosa mi circonda.
Pareti.
Le schegge del legno mi si conficcano nella carne dei polpastrelli ma quasi non sento il dolore mentre cerco freneticamente un varco, un buco o anche solo un appiglio.
Spingo le assi con le braccia, cerco di fare forza con le gambe, non sembra che si smuovano di un millimetro. Ho smesso di ragionare, ormai esiste solo il panico.
Aiuto.
Aiuto!
Cerco di fare rumore, provo ad urlare con tutto il fiato che ho in corpo.
Perché nessuno mi sente?
Non voglio morire.
Non voglio morire.
Non voglio morire. Non voglio.
Ho il respiro sempre più affannato per lo sforzo.
A malapena mi rendo conto di qualcosa di umido che striscia dal collo del piede fino al tallone, facendomi sobbalzare.
Cosa diavolo è?
Mi fermo, respirando piano l’odore del legno, cercando di capire. Il cuore batte forte, come se stesse per collassare.
Acqua?
È ghiacciata. Rabbrividisco.
Da dove arriva?
Quella novità sembra riuscire a permettermi di articolare qualche pensiero sensato. Come sono finita in questo macello? La mia mente fa fatica a rimettere insieme i pezzi, sembra che l’oscurità abbia inghiottito anche i ricordi.
Il ticchettio delle gocce nel nulla è assordante.
Stavo parlando con Anna. Era stamattina o ieri? No, oggi. Avevo dimenticato la tuta per l’ora di ginnastica. Ci eravamo date appuntamento davanti al “Cinquantuno” per prenderci un gelato quel pomeriggio, ma poi?
Non ricordo…
Tremo sempre più violentemente, mentre l’acqua sale strisciando lungo le cosce, insinuandosi sotto i pantaloni e attraverso il tessuto, rendendo i vestiti pesanti.
Sto per essere assalita da un altro attacco di panico.
Se l’acqua sale ancora… NO.
Non voglio pensarci. Non devo pensarci.
Perché non sono andata a prendere il gelato?
Andiamo. Concentrati.
Non pensare all’acqua, concentrati.
Ero uscita da matematica.
No, era storia. Il giovedì avevo storia prima di pranzo.
Stavo andando a casa. E quell’uomo si è sentito male…
Oh cazzo.
Alzo una mano ormai bagnata verso il collo. Il tocco mi fa rabbrividire ancor più violentemente.
Un puntino interrompe la pelle liscia, vicino alla clavicola, dove ricordo il lieve dolore dell’ago. Sembra una piccola crosta.
L’acqua è salita ancora.
La sento insinuarsi sotto la maglia leggera, raggiungere i capezzoli turgidi sotto il reggiseno quasi completamente fradicio.
Oddio, no.
Voglio uscire.
Fatemi uscire.
Non voglio stare qui!
Batto le mani contro il legno, graffio le pareti, urlo.
Non sento più le dita, a malapena il mio cervello sta registrando il calore e la strana vischiosità che mi scivola sulle mani. Sento l’odore ferroso del sangue ma non capisco da dove venga.
Poi il dolore esplode.
Urlo di nuovo, serro la mano per provare inutilmente ad attenuare le fitte.
Mi è saltata l’ennesima unghia.
Le ferite pulsano, nemmeno il freddo dell’acqua riesce a lenire la mancanza.
Ormai mi sfiora le labbra.
Oddio.
No... No... No. No.
Anche se cerco di inspirare a fondo, è troppo poca l’aria che riesce a raggiungere i polmoni.
Bruciano.
Più di quando ho provato a fumare con Luca, più della cera della candela che avevo ribaltato inciampando nel Lego di Alberto.
Provo per l’ultima volta a battere contro le pareti, ma l’acqua attutisce tutto.
Sale ancora, fino a togliermi l’ultimo spiraglio rimasto.

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