dicembre 07, 2016 -
Esercizi,Studio,wtf...?
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Esercizio 02 - Tempo 2 ore
Questa volta ho deciso di provare a scrivere qualcosa di diverso.
Sto facendo molta fatica a trovare una storia horror interessante per il compito del corso di sceneggiatura, così ho cercato entrare un po' nello spirito del genere, anche se non sono sicura di esserci riuscita. Inizialmente la storia doveva essere qualcosa di completamente diverso, ma ha deciso di comporsi un po' per i cavoli suoi e io le ho lasciato piena libertà di espressione.
Ringrazio un amico per avermi dato una buona idea per giocare con i tempi verbali, visto che avevo programmato di scriverla tutta al presente ma non ci convinceva. Così mi soddisfa sicuramente di più!
Ansimai per la paura e la lunga corsa, con i polmoni che bruciavano e la gola secca che pizzicava ad ogni respiro. Appoggiata al muro del vicolo, nascosta dai cassonetti dell'immondizia, mi tenni il fianco dolorante con una mano, pregando di aver seminato il pazzo con il coltello che mi aveva bloccato fuori dalla stazione della metro.
Era un periodo difficile in ufficio, molti collaboratori si erano licenziati a causa del mancato rinnovo del contratto di lavoro. Io ero una delle poche ad essere rimaste, visto che non potevo permettermi di rimanere senza uno stipendio. Facevo straordinari su straordinari mentre cercavo un'altra occupazione, attendendo risposte che non arrivavano mai. Nell'ultima settimana ero rimasta chiusa nello studio dalle dieci alle quindici ore al giorno e anche quella sera non ero riuscita ad uscire prima delle 22:00.
Quando finalmente raggiunsi l'entrata della metropolitana, sbadigliando per la stanchezza, uno sconosciuto mi bloccò il passaggio, trascinando la gamba destra.
Aveva vestiti luridi e usurati, la barba lunga, disordinata e unta che sembrava essere un tutt'uno con i capelli, di un colore indefinito a causa della sporcizia. Il viso era imbrattato di fango, vicino al naso aveva croste scure e portava un berretto di lana tutto bucherellato.
Tuttavia, la cosa più impressionante erano i suoi occhi: occhi che parevano enormi, con l'iride di un azzurro pallidissimo e la pupilla lattiginosa di un cieco. Rabbrividii per un istante mentre mi guardava, mi squadrava.
Una strana inquietudine cominciò ad invadermi il petto, e iniziai a desiderare di essere in un altro luogo, al sicuro nel mio appartamento oppure in mezzo ad altre persone. In qualunque posto lontano da lì.
Improvvisamente mi sorrise, con dei denti perfettamente bianchi e curati, tanto che sembravano risplendere nel contrasto con il resto della figura, e mi spinse lontano dalle scale. Io indietreggiai, traballante sui tacchi alti che ero costretta a portare per il lavoro.
Gli chiesi che cosa diavolo pensava di fare, ma non mi rispose. Estrasse solo l'altra mano dalla tasca mostrandomi che impugnava un enorme coltello da caccia. Quando il suo ghigno si allargò, smisi di pensare, reagendo solo alla paura, e mi voltai per fuggire lungo la strada che avevo appena percorso.
I miei tacchi picchiettavano sul marciapiede, la borsa mi urtava contro il fianco e il cuore batteva ad un ritmo frenetico. Mi guardai intorno, cercando una macchina, un taxi o una persona che potesse aiutarmi, ma la strada era insolitamente sgombra e silenziosa. Solo io rompevo la quiete della serata.
La paura continuava a crescere, il respiro si fece sempre più irregolare. Ad un certo punto cercai di sbirciare oltre la spalla per vedere se l'inquietante sconosciuto mi seguisse. Quando notai la sua ombra stagliarsi contro la luce di un lampione venni presa dal panico e tentai di aumentare l'andatura della corsa. Come poteva essere così veloce, con una gamba che a malapena lo reggeva?
Sfortunatamente non mi accorsi del tombino davanti a me. Il tacco sprofondò in una delle fessure e io persi l'equilibrio, cadendo a terra, sbattendo le ginocchia e sbucciandomi le mani. Mi sfilai le scarpe e ripresi a correre più veloce che potevo. Non mi resi nemmeno conto di aver lasciato a terra la borsa, del sangue che mi stava scivolando lungo una tibia, dei collant strappati, dei sassolini che mi trafiggevano le piante dei piedi. Me ne accorsi solo quando entrai nel vicolo.
Mentre il mio respiro tornava quasi regolare, cercai di ascoltare i rumori intorno a me per capire se fossi ancora seguita. Il rumore pesante di passi malfermi mi fece sobbalzare e fui costretta a tappare la bocca con le mani per bloccare il gemito disperato che mi stava per sfuggire. Sentii l'odore metallico del mio stesso sangue riempirmi le narici, ne avvertii il sapore dolciastro sulle labbra mentre la paura mi faceva registrare ogni più piccolo dettaglio: lo scricchiolio della suola consumata, lo strascichio lieve della gamba malandata, il fastidio delle ferite, lo zampettare dei topi nel cassonetto, l'odore pungente dell'umido in decomposizione che si mischiava a quello di urina. Il mio stomaco ebbe uno spasmo e dovetti premere le mani sulla bocca con più forza per cercare di ricacciare indietro un conato di vomito.
All'improvviso il calpestio dei suoi passi si fermò. Trattenni il respiro, con il terrore che mi avesse sentito e ebbi la sensazione che il mondo intorno a me si fermasse. L'unico rumore era quello agitato e irregolare del mio cuore nella cassa toracica. Mi passò per la mente l'idea che potesse udirne il battito frenetico e avvertii il calore defluirmi dal viso.
Poi, lentamente, i suoi passi cominciarono ad allontanarsi fino a sparire. Attesi per quella che mi parse un'eternità prima di spostare gli scatoloni di immondizia ed uscire dal mio riparo, volevo essere sicura che non fosse rimasto ad aspettarmi. Ma la mia fu una speranza vana.
Comparve dietro di me, mentre mi sporgevo sulla strada principale con la paura di trovarlo sotto la luce di un lampione. Non riuscii a capire come avesse fatto, e non ebbi comunque il tempo di pensarci: feci solo in tempo a voltarmi, più per una sensazione che per averlo davvero sentito arrivare. Vidi lo scintillio della lama alla luce dei lampioni, poi ci fu solo un dolore al fianco. Una di quelle sensazione che ti riempiono la testa e non ti permettono più neanche di pensare. Abbassai il volto, guardando il coltello sporgermi dall'addome, senza ben capire come avesse fatto a finire li. La lama era penetrata fino all'impugnatura e il sangue stava cominciato ad inzuppare i vestiti intorno ad essa. Era caldo, vischioso. Lo avvertivo scivolare sulla pelle, una sostanza estranea e fastidiosa.
Cercai di parlare, di fare qualcosa ma la mia mente non sembrava in grado nemmeno di articolare un pensiero coerente. Mi limitai ad osservare affascinata la mano dell'uomo che si ritraeva, il pugnale che usciva dalla mia carne con uno strano suono umido, poi all'improvviso le gambe cedettero.
Sono nella pozza formata dal mio stesso sangue, abbandonata sul marciapiede da non so più quanto tempo. Potrebbero essere ore, a me paiono giorni. Il mio corpo ha cominciato a diventare gelido. Cerco inutilmente di muovere le braccia per coprirmi il seno, o almeno abbassare la gonna, ma non rispondono. Cerco di biascicare qualche parola, ma dalla gola mi esce solo un suono fievole e incoerente. A malapena riesco a girare la testa verso la carreggiata, mi sento debole. Ho freddo.
Sto facendo molta fatica a trovare una storia horror interessante per il compito del corso di sceneggiatura, così ho cercato entrare un po' nello spirito del genere, anche se non sono sicura di esserci riuscita. Inizialmente la storia doveva essere qualcosa di completamente diverso, ma ha deciso di comporsi un po' per i cavoli suoi e io le ho lasciato piena libertà di espressione.
Ringrazio un amico per avermi dato una buona idea per giocare con i tempi verbali, visto che avevo programmato di scriverla tutta al presente ma non ci convinceva. Così mi soddisfa sicuramente di più!
Ansimai per la paura e la lunga corsa, con i polmoni che bruciavano e la gola secca che pizzicava ad ogni respiro. Appoggiata al muro del vicolo, nascosta dai cassonetti dell'immondizia, mi tenni il fianco dolorante con una mano, pregando di aver seminato il pazzo con il coltello che mi aveva bloccato fuori dalla stazione della metro.
Era un periodo difficile in ufficio, molti collaboratori si erano licenziati a causa del mancato rinnovo del contratto di lavoro. Io ero una delle poche ad essere rimaste, visto che non potevo permettermi di rimanere senza uno stipendio. Facevo straordinari su straordinari mentre cercavo un'altra occupazione, attendendo risposte che non arrivavano mai. Nell'ultima settimana ero rimasta chiusa nello studio dalle dieci alle quindici ore al giorno e anche quella sera non ero riuscita ad uscire prima delle 22:00.
Quando finalmente raggiunsi l'entrata della metropolitana, sbadigliando per la stanchezza, uno sconosciuto mi bloccò il passaggio, trascinando la gamba destra.
Aveva vestiti luridi e usurati, la barba lunga, disordinata e unta che sembrava essere un tutt'uno con i capelli, di un colore indefinito a causa della sporcizia. Il viso era imbrattato di fango, vicino al naso aveva croste scure e portava un berretto di lana tutto bucherellato.
Tuttavia, la cosa più impressionante erano i suoi occhi: occhi che parevano enormi, con l'iride di un azzurro pallidissimo e la pupilla lattiginosa di un cieco. Rabbrividii per un istante mentre mi guardava, mi squadrava.
Una strana inquietudine cominciò ad invadermi il petto, e iniziai a desiderare di essere in un altro luogo, al sicuro nel mio appartamento oppure in mezzo ad altre persone. In qualunque posto lontano da lì.
Improvvisamente mi sorrise, con dei denti perfettamente bianchi e curati, tanto che sembravano risplendere nel contrasto con il resto della figura, e mi spinse lontano dalle scale. Io indietreggiai, traballante sui tacchi alti che ero costretta a portare per il lavoro.
Gli chiesi che cosa diavolo pensava di fare, ma non mi rispose. Estrasse solo l'altra mano dalla tasca mostrandomi che impugnava un enorme coltello da caccia. Quando il suo ghigno si allargò, smisi di pensare, reagendo solo alla paura, e mi voltai per fuggire lungo la strada che avevo appena percorso.
I miei tacchi picchiettavano sul marciapiede, la borsa mi urtava contro il fianco e il cuore batteva ad un ritmo frenetico. Mi guardai intorno, cercando una macchina, un taxi o una persona che potesse aiutarmi, ma la strada era insolitamente sgombra e silenziosa. Solo io rompevo la quiete della serata.
La paura continuava a crescere, il respiro si fece sempre più irregolare. Ad un certo punto cercai di sbirciare oltre la spalla per vedere se l'inquietante sconosciuto mi seguisse. Quando notai la sua ombra stagliarsi contro la luce di un lampione venni presa dal panico e tentai di aumentare l'andatura della corsa. Come poteva essere così veloce, con una gamba che a malapena lo reggeva?
Sfortunatamente non mi accorsi del tombino davanti a me. Il tacco sprofondò in una delle fessure e io persi l'equilibrio, cadendo a terra, sbattendo le ginocchia e sbucciandomi le mani. Mi sfilai le scarpe e ripresi a correre più veloce che potevo. Non mi resi nemmeno conto di aver lasciato a terra la borsa, del sangue che mi stava scivolando lungo una tibia, dei collant strappati, dei sassolini che mi trafiggevano le piante dei piedi. Me ne accorsi solo quando entrai nel vicolo.
Mentre il mio respiro tornava quasi regolare, cercai di ascoltare i rumori intorno a me per capire se fossi ancora seguita. Il rumore pesante di passi malfermi mi fece sobbalzare e fui costretta a tappare la bocca con le mani per bloccare il gemito disperato che mi stava per sfuggire. Sentii l'odore metallico del mio stesso sangue riempirmi le narici, ne avvertii il sapore dolciastro sulle labbra mentre la paura mi faceva registrare ogni più piccolo dettaglio: lo scricchiolio della suola consumata, lo strascichio lieve della gamba malandata, il fastidio delle ferite, lo zampettare dei topi nel cassonetto, l'odore pungente dell'umido in decomposizione che si mischiava a quello di urina. Il mio stomaco ebbe uno spasmo e dovetti premere le mani sulla bocca con più forza per cercare di ricacciare indietro un conato di vomito.
All'improvviso il calpestio dei suoi passi si fermò. Trattenni il respiro, con il terrore che mi avesse sentito e ebbi la sensazione che il mondo intorno a me si fermasse. L'unico rumore era quello agitato e irregolare del mio cuore nella cassa toracica. Mi passò per la mente l'idea che potesse udirne il battito frenetico e avvertii il calore defluirmi dal viso.
Poi, lentamente, i suoi passi cominciarono ad allontanarsi fino a sparire. Attesi per quella che mi parse un'eternità prima di spostare gli scatoloni di immondizia ed uscire dal mio riparo, volevo essere sicura che non fosse rimasto ad aspettarmi. Ma la mia fu una speranza vana.
Comparve dietro di me, mentre mi sporgevo sulla strada principale con la paura di trovarlo sotto la luce di un lampione. Non riuscii a capire come avesse fatto, e non ebbi comunque il tempo di pensarci: feci solo in tempo a voltarmi, più per una sensazione che per averlo davvero sentito arrivare. Vidi lo scintillio della lama alla luce dei lampioni, poi ci fu solo un dolore al fianco. Una di quelle sensazione che ti riempiono la testa e non ti permettono più neanche di pensare. Abbassai il volto, guardando il coltello sporgermi dall'addome, senza ben capire come avesse fatto a finire li. La lama era penetrata fino all'impugnatura e il sangue stava cominciato ad inzuppare i vestiti intorno ad essa. Era caldo, vischioso. Lo avvertivo scivolare sulla pelle, una sostanza estranea e fastidiosa.
Cercai di parlare, di fare qualcosa ma la mia mente non sembrava in grado nemmeno di articolare un pensiero coerente. Mi limitai ad osservare affascinata la mano dell'uomo che si ritraeva, il pugnale che usciva dalla mia carne con uno strano suono umido, poi all'improvviso le gambe cedettero.
Sono nella pozza formata dal mio stesso sangue, abbandonata sul marciapiede da non so più quanto tempo. Potrebbero essere ore, a me paiono giorni. Il mio corpo ha cominciato a diventare gelido. Cerco inutilmente di muovere le braccia per coprirmi il seno, o almeno abbassare la gonna, ma non rispondono. Cerco di biascicare qualche parola, ma dalla gola mi esce solo un suono fievole e incoerente. A malapena riesco a girare la testa verso la carreggiata, mi sento debole. Ho freddo.
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